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DIFESA DEL TERRITORIO O COGESTIONE DELLA SUA ROVINA?

DIFESA DEL TERRITORIO
O COGESTIONE DELLA SUA ROVINA?

¿Defensa del territorio o cogestión de su ruina?, testo elaborato a partire dai dibattiti tenuti l’8 ottobre al CSA Sestaferia di Gijon, il 12 ottobre all’Espacio Libertario di El Ferrol e il 13 novembre 2010 nel corso delle Giornate di Agro-ecologia a Valladolid.

Una società libera sarà principalmente una società contadina: la conurbazione è una conformazione sociale strettamente capitalista, incompatibile con l’avvento della libertà e irrealizzabile in economie senza mercato.Queste due verità ci portano a considerare il cambiamento rivoluzionario da prospettive completamente nuove. Per questo motivo quando si parla di agricoltura biologica, sovranità alimentare o autosufficienza, cioè del lato positivo dell’anti-industrialismo, vale la pena specificare l’ambito in cui tutto ciò avviene, la situazione concreta del territorio. In una società in via di urbanizzazione totale, il territorio si trasforma in uno spazio vuoto a disposizione: una riserva generale di spazio alla mercé dei centri decisionali metropolitani. Nella nuova fase dello sviluppo capitalista l’oppressione ha soppresso il tempo e si è spazializzata: lo spazio sociale è una creazione del capitale e obbedisce alla sua logica. Lo sfruttamento del territorio gioca lo stesso ruolo dello sfruttamento del lavoro nella fase precedente; però, affinché questo avvenga in modo ottimale non solo c’è bisogno di riempire i luoghi di merci ma sono altresì necessari alcuni cambiamenti formali che adeguino la specificità territoriale all’economia e non blocchino l’espansione illimitata dei nuclei urbani. Cambiamenti che, oltre a banalizzare la vita in campagna, incentivino la de-industrializzazione, l’abbandono dell’agricoltura e la suburbanizzazione. Questa, diciamo, ultima campagna di razionalizzazione sociale si dota dei relativi strumenti giuridici: leggi che favoriscono l’attività urbanistica, quote agrarie, legislazioni sui suoli, riforme delle amministrazioni locali, normative per gli espropri, ordinamenti generali, pianificazione delle infrastrutture, ecc. Dall’altro lato la globalizzazione modella una nuova classe dirigente legata più alla gestione politica, finanziaria e imprenditoriale dello spazio che alla proprietà privata dei mezzi di produzione: una classe nata dalla trasformazione della borghesia in seguito alla sconfitta del movimento operaio e alla decomposizione delle classi tradizionali. Si tratta di una classe effimera, in perenne movimento, che si muove all’interno della divisione internazionale del lavoro e provoca un riordino territoriale globale o, detto in altri termini, che è responsabile di costringere il territorio a sottomettersi ai capricci del mercato mondiale. Dal suo punto di vista, qualsiasi resistenza al mercato costituisce un “arretramento” e ogni adattamento il “progresso”. In questo senso l’esistenza di una classe contadina autonoma rappresenterebbe la quintessenza dell’arretratezza, e la sua estinzione il massimo del progressismo. Le istanze locali dovrebbero costituire il primo anello verso la deregulation degli usi del territorio, la terziarizzazione dell’economia e, di conseguenza, verso la rapida mondializzazione delle risorse locali. I cambiamenti vengono sovvenzionati soprattutto grazie alle eccedenze prodotte dalla speculazione immobiliare: dunque, il trasferimento di capitali dall’industria, dall’agricoltura e dall’industria mineraria verso i servizi si baserebbe principalmente sulla costruzione di alloggi, strade e grandi infrastrutture. La campagna ha smesso di essere la dispensa di alimenti ed è diventata una cava di estrazione dei materiali, spalancando le porte alla concentrazione della popolazione, all’agricoltura industriale e alla “riconversione ambientale”, con risultati sempre più catastrofici per il territorio e i suoi abitanti. La terra non è più il crogiolo in cui si fonde l’identità tra gli individui e la loro comunità. La colonizzazione del territorio da parte della merce produsse conflitti già a partire dagli anni ‘70, però questi non occuparono un ruolo centrale nella lotta anticapitalista per ancora molti anni, fino a quando la coscienza dei combattenti non cominciò a superare gli ostacoli dell’opportunismo ecologista e l’arrocco operaista. Infatti, tanto gli ecologisti quanto gli operaisti attaccarono il capitalismo globalizzato in nome di una forma capitalista anteriore, ormai liquidata, nella quale i sindacati, le assemblee di fabbrica e i partiti verdi fungevano da contrappeso alle ingiunzioni unilaterali del mercato. Ma con il successivo giro di vite verso la suburbanizzazione – e verso la cultura di massa – il territorio si è uniformato, ordinato secondo i criteri della massima redditività, ospitando uno stile di vita identico in cui il consumo era considerato la massima felicità terrena e perciò visto da tutti quasi come un dovere civico. Scendere a compromessi con le istituzioni e le imprese nella degradazione controllata del territorio screditò l’ecologismo, mentre la scomparsa delle fabbriche spense le ultime braci dell’operaismo. La condizione operaia è propria della società urbana: il salario è impensabile nel mondo rurale tradizionale. Ebbene, questa condizione che in precedenza serviva a cementare una classe, ha conosciuto una profonda trasformazione nella società pienamente urbanizzata, che ha portato all’effettiva scomparsa della coscienza di classe. Ma con o senza coscienza, il conflitto lavorativo non supera i limiti del sistema e pertanto non lo mette in discussione. Si può dire altrettanto del conflitto ambientale, mentre invece ciò non accade nel conflitto territoriale. Un territorio autonomo e liberato è qualcosa di radicalmente incompatibile con l’ordine capitalista, a differenza della difesa del paesaggio, del salario o del posto di lavoro, e altrettanto incompatibile con il proletariato. La difesa del territorio aveva un contenuto anticapitalista e de-proletarizzante difficile da negare e mostrava una caratteristica essenziale che la distingueva nettamente dalle impostazioni operaiste e verdi, denunciandone al contempo l’inefficacia e l’obsolescenza. Questa caratteristica era l’anti-industrialismo. La lotta per il territorio negava un dogma basilare del capitalismo e del socialismo operaista, lo sviluppo delle forze produttive, ovvero la crescita illimitata sia nella sua forma più dura sia nella variante socialista o “sostenibile” – come norma obbligatoria di funzionamento e di risoluzione dei problemi sociali. Tuttavia, la crescita li faceva aggravare. La ricostruzione totalitaria dello spazio sociale come progetto di classe avrebbe talmente violentato il territorio che giocoforza avrebbe creato dei problemi. La protesta, tante volte decapitata, non poteva fare altro che riprodursi ed estendersi, motivo per cui la sua disattivazione diventò l’obiettivo principale della classe dirigente. Allora il dominio cambiò politica, passando dall’intolleranza totale al  riconoscimento parziale del conflitto e al negoziato. Nacque così la “democrazia partecipativa”, strumento con il quale costruire un falso soggetto mediatore pescandolo tra i comitati autoproclamatisi, le piattaforme e gli pseudo movimenti sociali – la delegazione della citadinanza – e in questo modo rinchiudere la protesta in scenari locali, frammentandola e isolandola. La democrazia partecipativa veniva invocata espressamente per sabotare la rinascita di una coscienza sociale del territorio, impedendo la comparsa di un vero soggetto storico. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, parla di una zona grigia presente tra i boia nazisti e le loro vittime, formata da tutti quei prigionieri che collaboravano e grazie ai quali i campi di concentramento e di sterminio si poterono amministrare. Dal momento che l’attuale colonizzazione del territorio viene attuata con metodi che corrispondono in maniera perfetta a una società gerarchica, burocratica e autoritaria, non è affatto equivoco lo stabilire un parallelismo e parlare di una zona grigia formata da tutti quelli che cercano delle formule di compromesso tra l’aggressione del territorio e la sua difesa. E, per esteso, da tutti quelli che accettano le regole del gioco politico dell’oppressione, che chiedono protezione allo Stato aggressore, inginocchiati e riempiendosi la bocca di parole d’ordine quali sobrietà volontaria, commercio equo, riciclaggio, decrescita, nuova cultura del territorio, economia sociale, modelli alternativi di gestione territoriale, ecc. Il contesto è certamente favorevole a una tipologia di essere umano nato dalla decomposizione delle classi medie, particolarmente degenerato, facile da corrompere, ambizioso e frustrato, ambiguo e incline al compromesso, prete e filisteo, avido di potere e al tempo stesso servile. Sono esattamente questo genere di persone a popolare lo strato intermedio tra oppressi e oppressori, che millanta il suo ecologismo, milita in un sindacato o appartiene a un comitato locale. Usare il concetto di zona grigia rende più comprensibile la politica e viceversa si riesce a capire meglio la vita politica attraverso la nascita, lo sviluppo e l’apogeo della zona grigia. Compito di questa zona è di contenere il conflitto e dissolverlo, sia dirottandolo verso l’elettoralismo sia verso i tribunali o verso un negoziato claudicante. In entrambi i casi annegandolo nello spettacolo e riducendo i suoi veri protagonisti alla categoria di pubblico. I grigi danno molta importanza ai mezzi di comunicazione ora che la realtà si sta spostando verso lo scenario della “cultura del si però”, dove non solo si prepara una migliore accettazione del dominio ma si forgia anche una sottomissione più funzionale. Da qui deriva anche l’ambientazione ludica che accompagna la strumentalizzazione mediatica del conflitto, dato che lo stato d’animo euforico è quello più vulnerabile al messaggio unilaterale e pertanto il più adeguato a dissimulare lo spettacolo. In questo modo la zona grigia della collaborazione cittadinista lavora assieme ai poliziotti, agli psicologi e agli esperti della socialdemocrazia affinché la società appaia priva di contraddizioni, trasparente, piatta, soddisfatta, festosa, ecologica e allegramente contestataria. I meccanismi partecipativi “trasversali” cercano di garantire che la sopravvivenza in ambienti sempre più tossici e degradati non intacchi l’immagine rosea degli pseudo-conflitti e il livello della messa in discussione che si produce sia controllabile. La partecipazione deve rieducare l’individuo a essere un cittadino votante, pacifista convinto e consumatore “responsabile” impegnato nell’ambiente, e non incitarlo a pensare o a ribellarsi. Attraverso la separazione totale tra la base della protesta e la sua rappresentanza, attraverso la condanna esplicita dell’autodifesa, si ottiene l’indebolimento dei conflitti, destinati inesorabilmente a impantanarsi nelle fosse biologiche dello Stato, vale a dire nelle fogne dell’autoproclamatasi “democrazia rappresentativa”. Che nessuno si senta poi ingannato: il grigio movimento associativo non è né pretende essere un nemico del parlamentarismo quanto un suo ausiliare efficace. Perciò non è affatto contraddittorio trovarvi militanti di partiti e sindacati, dato che tra quelli presi in considerazione sono i più impegnati nell’auto-limitare il conflitto dal suo interno e zittire le espressioni della radicalità controllando il dibattito. Bisogna evitare che il dibattito sfoci in conclusioni anti-industriali e che la lotta scenda sul terreno dello scontro, o detto altrimenti che la discussione non si concluda con l’elaborazione – al di fuori delle istituzioni – di interessi generali capaci di dare alla difesa del territorio una prospettiva e una incisività assolutamente contrarie al capitalismo. Di fatto, questa zona grigia associativa e partecipativa è cresciuta quasi più velocemente dello stesso conflitto che parassita, sottovento al vuoto esistenziale e alla confusione provocate dalla generalizzazione dello stile di vita urbano consumista che si è verificata a partire dagli anni ottanta. La smania di consumare – come quella di votare – sfocia in un clima di frenesia edonista che per mantenersi ha bisogno di un livello di attività mentale minimo, di una memoria cancellata e di un’intelligenza parcheggiata. Da questa atmosfera non si salva nessuno: per questo nemmeno le lotte più apertamente anti-industriali, la lotta contro il TAV nei Paesi Baschi, la difesa del litorale galiziano o l’opposizione alle linee ad alta tensione in Catalogna sono state esenti da una zona grigia, che quando non le minano dall’interno le ammorbidiscono dal di fuori. Tuttavia il vero problema rappresentato dai grigi è che il sistema dominante, che a mala pena può farsi carico delle spese causate dallo Stato, ancor meno può farsi carico dei costi di un accordo che serva a neutralizzare il conflitto. A maggior ragione non può nemmeno finanziare una burocrazia territoriale minimamente credibile che co-gestisca abilmente il processo di distruzione ambientale e sociale, motivo per cui continua ad optare per la criminalizzazione mediatica, le multe e i processi. Non per questo la zona grigia svanisce. Semplicemente il suo lavoro non viene istituzionalizzato, ma viene svolto gratuitamente. Nelle aree del tardo capitalismo l’anomia sociale rende in buona parte inutile il lavoro dei collaborazionisti, dato che il dominio può reprimere la protesta facilmente non avendo di fronte quasi più un vero movimento ma solo delle minoranze radicalizzate. Ma quando la rivolta produce i suoi primi scoppi, la zona grigia diventa una risorsa imprescindibile per i governi, che si vedono costretti a mutare la loro immagine di moderazione pseudo-democratica in un’altra più aggressiva, compresa quella pseudo-rivoluzionaria, nei momenti critici spesso incarnata nella figura di un leader massimo o caudillo, come nel caso di Morales, Ortega o Chavez. L’uomo della provvidenza “che parla come il popolo”, “con le persone semplici che devono contare”, vale a dire con la popolazione maggiormente sottomessa e manipolabile, è indice del fatto che la crisi sociale ha raggiunto un punto di flesso tale da rendere necessaria la sostituzione della burocrazia politica tradizionale con un’altra creata ex novo da parte dello Stato. I regimi populisti hanno bisogno di una mobilitazione generale della società dietro a un programma di crescita e riproduzione dell’economi globalizzata che l’apparato politico tradizionale della classe dominante non è in grado di realizzare. Con il fallimento dei meccanismi abituali di controllo e rappresentanza, si fa appello a un’estesa rete clientelare che svolge la funzione di movimento di base satellite. Un duplicato del partito dell’ordine. Una zona grigia che perciò ottiene per cooptazione lo statuto di nuova classe con la missione di portare a termine compiti importanti, la demoralizzazione, lo sradicamento e il disorientamento per indurre uno stato di anomia nelle masse con bassi livelli di consumo; la zona grigia deve tessere la propria lana disfacendo il tessuto sociale su cui è atterrata. I sui sviluppi terzomondisti sono uno stimolo di prim’ordine per i suoi omologhi del primo mondo. I collaborazionisti di qua, compresi probi anarchici come Michel Albert e Naom Chomsky, diventano volentieri i migliori propagandisti e perfino gli ambasciatori informali del populismo. Vedette, intellettuali e politici di confine sovente si fanno interpreti e capofila del discorso populista, poiché la tiritera pseudo-radicale da grandi capi gli fornisce argomenti, miti e riferimenti con cui consolidare un’identità che è sempre mancata a quelli della zona grigia occidentale. Dopo aver rovistato in questo armadio, i grigi possono uscirne abbastanza illuminati come se dovessero mettersi nelle mani della reazione mascherata da rivolta. La zona grigia, dotata di un discorso identitario, passa dall’essere spontaneamente reazionaria all’esserlo consapevolmente. Si può concludere dicendo che la zona grigia, lo spazio che separa gli sfruttati dagli sfruttatori occupato dal collaborazionismo, è un complemento necessario del dominio, ma diventa imprescindibile solo nei momenti di grave crisi sociale, quando la repressione non funziona, la credibilità dei partiti si è esaurita ed è urgente disarmare ideologicamente la rivolta in modo che questa non arrivi a costituire un soggetto rivoluzionario. Solo allora può istituzionalizzarsi; solo allora può far parte della burocrazia statale e di conseguenza svolgere comodamente il compito che le è stato destinato. Perché solo allora le condizioni sociali che rendono possibile un universo totalitario e che sono sempre state così, diventano palesi e si manifestano in tutto il loro orrore, assicurando la continuità del processo distruttivo contro laminaccia di una rivoluzione. Se i difensori del territorio non vogliono finire per cogestire la catastrofe invece di sopprimerla devono fin dall’inizio smarcarsi dai grigi, che covando il tradimento rimangono imboscati in ogni conflitto. A proposito di gente simile, Rosa Luxemburg era solita citare il seguente passaggio biblico: «Oh, fossi almeno o freddo o caldo! Ma perché sei tiepido, e né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca.»