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Il fallimento dell’ecologia politica

Il fallimento dell’ecologia politica

di Gilles Dauvé

IV episodio della serie: Pommes de terre contre gratte-ciel, apparso su ddt21.noblogs.org, gennaio 2021

Sebbene sotto molti aspetti confliggano, ecologisti di governo, ecologisti dei «piccoli passi», ecosocialisti ed ecologisti radicali hanno un punto in comune. Che ambiscano a un incarico ministeriale, fondino una cooperativa di consumo bio, scrivano il programma per una futura «vera sinistra» o tentino di fare dell’ecologia la leva di un sovvertimento della società, tutti mettono la «questione ecologica» al centro del mondo attuale, come se oggi essa costringesse a ridefinire ciò che il capitalismo è, e in cosa consista la sua necessaria e possibile trasformazione. Tutti si vogliono allo stesso modo realisti, e si vantano di agire senza accontentarsi delle sole parole.

 

 

 

1. Il liberismo in bicicletta

 

A partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, negli Stati Uniti, si è fatto avanti un ecologismo composito, incoraggiato dal bestseller di Rachel Carson, Primavera silenziosa (1962), che denunciava la strage di uccelli provocata dai pesticidi. Nel 1970 fu organizzata la prima «Giornata della Terra», più una celebrazione ufficiale che un’azione militante. Successivamente, in nome della difesa dei consumatori, Ralph Nader1 si candiderà quattro volte alla presidenza degli Stati Uniti.

 

In Francia, il primo partecipante ambientalista alle elezioni presidenziali del 1974, René Dumont, insisteva soprattutto sull’incapacità del capitalismo di sopprimere la fame, la sovrapproduzione e l’eccessivo consumo di energia. Secondo costui, la linea di frattura sociale non opponeva borghesi e proletari, bensì consumatori dei paesi ricchi e masse diseredate del Terzo Mondo, nelle quali si incarnavano i veri proletari moderni.

 

Nel XXI secolo, Dumont gode dell’immagine di pioniere di una giusta causa: l’ecologia è data per scontata, e si adatta alle più svariate posizioni politiche. In suo nome, si possono fare discorsi estremamente radicali oppure consociativi, di destra come di sinistra (e perfino di estrema destra «reazionaria», che si proclama antiborghese e predica il ritorno a una natura autentica, non mercificata), afferenti all’anarchismo più rivoluzionario o a quello più moderato (Bookchin).

 

Per l’opinione pubblica, i media e la classe politica, l’ecologia diventa elemento indispensabile di ogni discorso sul mondo (ma non in modo unanime: Trump non è stato l’unico capo di stato a mostrarsi scettico riguardo ai cambiamenti climatici). E per una piccola minoranza, che si pretende critica in rapporto alla società, essa completa un anticapitalismo superficiale: si è ecologisti come si è «contro la finanza».

 

Le più eminenti organizzazioni ecologiste avevano il sostegno di liberisti come Bill Clinton e Al Gore, artefici di un commercio mondiale che è responsabile dell’aumento delle emissioni di carbonio. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), l’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio (NAFTA) e il capitale mondializzato hanno ottenuto l’appoggio del «Big Green», vale a dire delle ONG ambientaliste, finanziate da grandi aziende e funzionanti sul loro stesso modello: allocazione di fondi, marketing, reclutamento di personale di gestione ad alto salario etc. Quanto ai Verdi tedeschi, essi offrono un modello da seguire per gli ambientalisti francesi: oltre-Reno, «l’ecoriformismo» si accompagna alla gestione social-liberista del capitalismo, nel quadro di alleanze di centro-destra come di centro-sinistra. Riscaldamento geotermico, ricorso a procedimenti e materiali poco inquinanti, progresso delle energie rinnovabili ed estensione delle piste ciclabili, fanno sì che i rappresentanti verdi accettino la riduzione dei sussidi di disoccupazione, l’attacco alle pensioni, la contrazione della spesa sociale…

 

 

 

2. Elogio della moderazione

 

«Poiché affrontare il globale sembra impossibile, agiamo localmente», ci ripetono gli adepti dello small is possible. Per essi, la specie umana si è spinta troppo oltre. Si tratta adesso di essere saggi, su piccola scala, perfino individualmente: visto che ciascuno di noi è considerato responsabile del riscaldamento globale, un calcolatore on-line permette di misurare costantemente le emissioni di gas-serra prodotti dalle nostre attività e gesti quotidiani.

 

Come se la produzione dipendesse dal consumo! Il numero di smartphone venduti [nel mondo, ndt] ogni mese, 130 milioni, è impressionante. Ma, in Francia, nei due decenni che precedettero il 1900, si passò da 50.000 biciclette a circa un milione, e durante i «Trenta Gloriosi» da 10 a 30 milioni di automobili. Dalla fine del XIX secolo, si succedono oggetti il cui acquisto non è imposto né con la forza né con la pubblicità: il loro uso soddisfa un bisogno creato dal modo di vita che è il portato dell’evoluzione capitalistica di una data epoca, ed è reso possibile dalle condizioni di produzione del momento. Automobile e schermo non offrono soltanto libertà e velocità, ma sono anche mezzi d’individualizzazione e di socializzazione. La rarefazione delle terre cosiddette rare avrebbe certo un effetto sull’attuale onnipresenza degli schermi tattili, ma è illusorio pensare che la crisi ambientale porterà con sé una presa di coscienza capace di trasformare i comportamenti, come se uno shock bastasse a guarire il malato.

 

I movimenti sociali degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso favorirono la teorizzazione di un superamento del capitalismo, in forme confuse e molteplici, ma che avevano generalmente un punto in comune: l’ascesa al potere dei lavoratori era vista come la soluzione. L’esaurirsi delle lotte di quel periodo ha reso un simile obiettivo a malapena concepibile per le generazioni successive, in mancanza di strumenti mentali per pensare un mondo senza denaro né lavoro salariato. A rigore, l’abolizione dello Stato rimane nella testa dei più radicali. Tuttavia, per molti autori e militanti, farla finita col capitalismo equivale a sovvertire il dominio dell’oligarchia e delle banche, per poter vivere meglio, con maggiore democrazia e uguaglianza in tutti i campi. (Potremmo dire che non è così grave, perché i proletari che faranno la rivoluzione leggono pochi libri e non militano, ma l’immaginario sociale gioca comunque un ruolo nella storia). Dunque, anziché distruggere il capitalismo, si cerca di uscirne, credendo di riallacciarsi – molto parzialmente – all’epoca preindustriale, eliminando ciò che vi è di manifestamente dannoso nell’ipermacchinismo (la raffineria inquinante) e conservando quanto vi sarebbe di buono (l’informatica). Grazie alla stampante 3D, addio ai metalli. Con il web, niente più bisogno di automobili. Contro il monopolio, la piccola proprietà. Contro l’agro-industria, il produttore locale. La birra artigianale al posto della Heineken. Il workshop collaborativo contro la gigafactory (local is beautiful).

 

Come credere seriamente che il futuro del mondo dipenda da un moltiplicarsi di gesti individuali? Come se toccasse a noi, in quanto consumatori, optare per una «sobrietà felice», quando le nostre scelte intervengono a valle, e non a monte, di produzioni che dipendono essenzialmente dal movimento dei capitali. Si stima così – un esempio tra i tanti – che il 70% delle emissioni di gas-serra, tra il 1988 e il 2015, siano state dovute a sole cento multinazionali.

 

L’utopia non è più quella di un tempo. Le cooperative di produzione e di vita degli anni ‘40 del XIX secolo, speravano di sconfiggere dall’interno la società industriale nascente. Quelle della Belle Époque2 erano spesso legate a un movimento operaio vigoroso e antiborghese. Quasi due secoli più tardi, le molto redditizie catene di distribuzione «bio» e le ben più modeste AMAP3, coesistono più o meno tranquillamente con il gigante della grande distribuzione Carrefour: si tratta soltanto di vivere il meno peggio possibile là dove il capitalismo lo consente.

 

 

 

3. L’ecosocialismo

 

Un largo ventaglio di pensatori e gruppi vorrebbe che l’ecologia contribuisse alla ricomposizione di una sinistra politica, cioè rivitalizzasse o ringiovanisse partiti e sindacati, assumendo talvolta persino accenti marxisti, nel senso di un’analisi della società moderna in quanto società capitalistica e suddivisa in classi, benché si tratti qui di opposizione più che di contraddizione.

 

Questa corrente rimprovera sia agli ecologisti di governo che ai sostenitori dei «piccoli passi» la loro mancanza di coerenza: poiché i responsabili della crisi climatica sono i ricchi e i capitalisti, è con essi che bisogna prendersela. «Il problema è il capitale»: ma, per gli ecosocialisti, «capitale» è sinonimo di grandi lobby industriali e finanziarie. Salvare il pianeta significa dunque domarle per mettere fine alle imprese inquinanti, imporre l’arresto (o la forte diminuzione) dell’estrazione di combustibili fossili, porre termine all’espansione dell’agro-business e degli ipermercati, rianimare i servizi pubblici (in particolare i trasporti), instaurare un regime allo stesso tempo «giusto» ed ecologico, imporre eventualmente un «razionamento ecologico» limitando ad esempio i viaggi in aereo – tutto ciò avendo come presupposto la necessità di «ridare la parola e il potere decisionale al popolo».

 

A differenza del «vecchio» movimento operaio, l’ecosocialismo auspica un coordinamento di forze che vanno al di là del lavoro organizzato: nei paesi cosiddetti ricchi, le donne, le minoranze sessuali e «razziali», una gioventù che può essere mobilitata «per il clima»; e in quello che un tempo era il Terzo Mondo, i popoli indigeni, le organizzazioni contadine etc. L’unificazione di tutte le categorie oppresse creerebbe un rapporto di forza tale da portare all’avvento di un potere politico che – in quanto realmente, e non più solo formalmente democratico – promuoverebbe un settore pubblico al servizio dei lavoratori e degli utenti.

 

Il vecchio programma socialista prometteva di superare «l’anarchia della produzione» attraverso un capitalismo socializzato e pianificato. Nel XXI secolo, questa economia controllata e rimessa al servizio di tutti, lo sarebbe non più soltanto dall’alto (attraverso lo Stato e il Parlamento), ma anche grazie alla congiunzione tra i rappresentanti del popolo e i collettivi cittadini (l’aggettivo «cittadino» sostituisce volentieri il termine «popolare», oggi considerato un po’ antiquato). Al vecchio slogan, troppo giacobino, delle «nazionalizzazioni», si preferisce la «socializzazione» dell’energia e del credito. In una «democrazia del carbonio»4, l’eolico integrerà (o – in una versione più estrema – rimpiazzerà) le centrali EdF5, d’ora in avanti poste sotto controllo cittadino, divenendo così ormai la democrazia, essa stessa, parte delle «rinnovabili».

 

La socialdemocrazia è morta, o è molto malata, perché ha rinunciato a difendere il lavoro («il popolo minuto», i poveri, quelli che stanno «in basso») e accettato, in toto o in (gran) parte, il programma apertamente borghese. La contraddizione dell’ecosocialismo è di voler superare questo fallimento (che, dal punto di vista della classe dominante e dei suoi portavoce, è un successo) promettendo profonde trasformazioni in senso ecologico che sono ancora più inaccessibili delle riforme, ancorché modeste, che le diverse «sinistre della sinistra» non sono riuscite ad imporre negli ultimi venti o trent’anni.

 

 

 

4. Ecologismo militante

 

Una frangia dell’ecologismo ritiene che sia già troppo tardi per qualsivoglia «sviluppo sostenibile». Di fronte all’inerzia dei governi e alla desuetudine dei partiti, occorrerebbe mobilitarsi dal basso, facendo leva sulla visione di un capitalismo assimilato a una macchina imballata dal motore surriscaldato, sempre meno performante e sempre più nefasta, ma anche (fortunatamente) sempre più vulnerabile, e quindi destinata a cedere sotto la spinta di masse intese nell’accezione più larga del termine. Da qui un pragmatismo rivendicato, che dà priorità all’azione, preferibilmente di piazza, accompagnata da gesti simbolici, talvolta spettacolari, e persino illegali.

 

Gli animatori delle «marce per il clima» credono che queste sfilate siano necessarie. Sanno che non bastano, ma le considerano un mezzo di mobilitazione che può rafforzare la pressione. Si pensa che le pratiche individuali e collettive si combinino per esercitare un peso sulla società: «l’arma del portafoglio» (comprare bio) non esclude né il ricorso alle urne (votare verde), né la creazione di «basi» (le ZAD)6 dove abbozzare una vita sociale e politica alternativa, oggi semplice mezzo di difesa, domani strumento di un’offensiva anticapitalistica.

 

Il collante di queste pratiche è l’illusione che la catastrofe – già sopravvenuta o imminente – costituisca una forza mobilitante e unificante. A differenza di quanto avviene per lo sfruttamento capitalistico, per una guerra mondiale o per una grave crisi economica, oggi è la totalità della specie ad essere coinvolta, e non una o più delle sue componenti (operai, contadini, popoli colonizzati e autoctoni, donne etc.). L’umanità sarebbe in tal modo quasi costretta a diventare il «soggetto» della propria storia. La crisi ecologica possederebbe il vantaggio di unificare finalmente tutte le categorie dei dominati in un «movimento dei movimenti» (come nel caso della «Assemblea delle assemblee»7, la ripetizione del termine sembra garantire, allo stesso tempo, forza e diversità). Non resterebbe quindi che farne prendere coscienza all’insieme degli abitanti del pianeta.

 

Nella realtà, le azioni dirette contro i progetti di estrazione fossile si sommano senza convergere, e la Blockadia cara a Naomi Klein8 non suscita alcun coordinamento internazionale. Le resistenze tessono dei rapporti di solidarietà, e creano talvolta delle «zone temporaneamente autonome», che in genere si succedono le une alle altre: una volta ottenuta la vittoria o riconosciuta la sconfitta, gli «zadisti» si spostano verso un’altra ZAD e, se necessario, la creano là dove è stato annunciato qualche grande e inutile progetto di cementificazione. Purtroppo, unificare delle lotte specifiche, significa mettere in concorrenza tra loro i militanti di ciascuna lotta nello stesso luogo, che diventa perciò terreno privilegiato delle rivalità interne, anche a costo di dimenticare ciò che aveva motivato inizialmente la creazione della ZAD in questione.

 

Una moltiplicazione delle ZAD non bloccherà il «globale» più di quanto le posizioni acquisite dal lavoro organizzato in epoche passate (casse di mutuo soccorso, associazioni, cooperative, sindacati e partiti) abbiano smantellato il capitalismo. Nella misura in cui le ZAD sono spesso teatro di scontri dalla valenza positiva, lo zadismo diffonde l’illusione che i problemi ecologici offrano un terreno privilegiato sul quale costruire un «fronte di lotta» in un braccio di ferro con lo Stato, a condizione che si scelgano le giuste forme di lotta. Questo significa dimenticare che nessuna emergenza possiede in se stessa un potere ricompositivo vettore di cambiamento.

 

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L’ecologia politica pretende di fare economizzare risorse, e nello specifico risorse energetiche, a un sistema che è votato alla sovrapproduzione e al sovraconsumo. Ora, se è preferibile rimpiazzare le fonti fossili con quelle rinnovabili, è pur vero che queste ultime hanno dei limiti, in particolare un funzionamento intermittente. È con la sete di energia inerente al modo di produzione capitalistico che occorre rompere, ma l’ecologia, come scienza e come politica, ne è incapace. Ne sia prova la sua accettazione del «digitale», che presuppone l’«elettronico», con tutto ciò che ne consegue.

 

In conclusione, per gente che si reputa realista (e ci rimprovera volentieri il nostro «utopismo»), il bilancio è ben magro. Gli ecologisti riformatori non riformano nulla, e i radicali ottengono a malapena qualcosa in più dei moderati. La situazione climatica intanto peggiora: restare sotto la soglia degli 1,5° o 2° di surriscaldamento, richiederebbe da qui al 2030 o al 2050 una trasformazione del modo di produzione e del modo di vita che oggi niente sembra annunciare. Nella gara di velocità tra il miglioramento e la degradazione, il pianeta resta finora largamente perdente. Non si è tuttavia mai tanto parlato di ecologia. Dal punto di vista politico, il fallimento è evidente.

 

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Letture e osservazioni

– Rachel Carson, Primavera silenziosa [1962], Feltrinelli, Milano 1999.

 

– René Dumont, L’utopia o la morte, Laterza, Bari 1974.

 

– Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

 

Latouche mostra i limiti dello «sviluppo sostenibile», cioè di un capitalismo meno inquinante e quindi capace di durare più a lungo. Ma essendo per lui il capitalismo sinonimo di illimitatezza, si tratta di trovare i mezzi per darci dei limiti. Facendo riferimento in particolare ad alcuni esempi africani, egli propugna uno scambio mercantile non orientato all’onnipotenza del mercato. Sul cammino della moderazione, incontra Castoriadis, che cita, elogiandolo: «in quanto unità di valore e mezzo di scambio, la moneta è una grande invenzione, una grande creazione dell’umanità», sarebbe ora sufficiente

 

«reinserire l’economia nel sociale». È l’elogio della piccola produzione mercantile, di un precapitalismo che non evolverebbe in capitalismo perché posto sotto il nostro controllo collettivo. Lo sviluppo del commercio ateniese e delle fiere medievali hanno ciononostante portato alla borsa valori di Amsterdam e a Wall Street. Latouche immagina di risolvere un problema con mezzi simili a quelli che l’hanno generato.

 

 

 

Ecosocialismo

 

Nelle sue numerose varianti, l’ecosocialismo ha un bel presentare una «analisi di classe» del problema ecologico: la sua soluzione è concepita come trasversale e interclassista, passando per una vasta alleanza che mescola lavoratori, militanti ambientalisti, donne, popoli del Sud del mondo, attivisti dei diritti umani e dominati di ogni sorta (soltanto l’1% degli «oligarchi» ne è escluso). Eterno programma di un’impossibile rivoluzione graduale, con la sola differenza che oggi essa sarebbe «ecodemocratica».

  • Daniel Tanuro, L’impossibile capitalismo verde, Ed. Alegre, Roma 2011.
  • Michel Husson, Six milliards sur la planète: sommes-nous trop?, Textuel, Paris 2000.
  • Naomi Klein, Capitale contro clima, Castelvecchi, Roma 2020.

I capitoli 2 e 5 del libro di Naomi Klein descrivono gli effetti del capitalismo, non la sua logica profonda. Lucida sui limiti dell’ecologia politica e sul greenwashing, Klein confida tuttavia in un differente atteggiamento dei governi e del Big Business, a condizione che vi sia un po’ ovunque una pressione delle masse: in tal modo Blockadia avrebbe ragione del Globalia delle multinazionali. Per lei, come per gli ecosocialisti, se fosse posto sotto il nostro controllo – quello del popolo – il capitalismo cesserebbe di essere tale.

 

Estrema sinistra

Ormai ogni gruppo o partito sente l’obbligo di aggiungere al proprio giornale o al proprio blog una pagina dedicata ai temi dell’ecologia. L’articolo segnalato qui di seguito, illustra un esempio di opportunismo fra i tanti:

  • La IVe Internationale victime du réchauffement climatique, in «Le Prolétaire», settembre-ottobre 2019.

Ciò che spiega «Le Prolétaire» non riguarda soltanto la IV Internazionale trozkista. Buona parte dell’estrema sinistra tende a considerare la contraddizione borghesia/proletariato secondaria rispetto a quella tra l’eccessiva crescita capitalistica e i suoi limiti naturali, opposizione che presenta il vantaggio di riguardare praticamente tutti: proletari, donne, minoranze sessuali, gli oppressi a causa della loro

«razza», i giovani e, in termini generali, i popoli che un tempo erano definiti «del Terzo Mondo» – tutti vittime, ad un grado più o meno elevato, dei cambiamenti climatici, e quindi suscettibili di essere mobilitati nell’ambito di azioni «per il clima». Ma, come scrivevano i situazionisti, «bisogna anche avere i mezzi del proprio opportunismo» («Internationale Situationniste», n. 7, 1962).

 

Deep ecology

L’«ecologia profonda» rappresenta un capitolo a parte. I sostenitori della deep ecology rimproverano all’ecologia classica di considerare l’insieme della vita solo dal punto di vista della specie umana, e di interessarsi agli squilibri ecologici (la perdita della biodiversità, ad esempio) solo nella misura in cui nuocciono agli umani. Per questa corrente, l’insieme del mondo vivente non deve essere trattato come una «risorsa»: esso ha un valore indipendente dalla sua utilità per gli esseri umani. A questa concezione, si connette l’idea che la crisi ambientale obblighi a sostituire o integrare il «contratto sociale» della democrazia moderna con un «contratto naturale» (Michel Serres), a instaurare un «parlamento delle cose» (Bruno Latour) e ad accordare diritti ai non-umani – temi propri anche dell’antispecismo, ma che esulano da quadro di questa esposizione.

 

Per non appesantire ulteriormente questo testo, non approcceremo nemmeno gruppi come Deep Green Resistance e Extinction Rebellion, che meriterebbero tuttavia una critica tanto del loro funzionamento che delle loro teorie.

 

Note

1 Ralph Nader (1934): avvocato e uomo politico statunitense. Animatore di campagne per i diritti dei consumatori negli anni 1960, più tardi candidato alle elezioni presidenziali nelle file del Green Party (1996, 2000), del Partito riformatore (2004) e come candidato indipendente (2008). [ndt]

2 Si designa con questo termine il periodo compreso tra la fine del XIX secolo e l’inizio della Prima Guerra mondiale (1914). [ndt]

3 Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne: nella sostanza, l’equivalente dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) italiani. [ndt]

4 Espressione coniata da Timothy Mitchell, e che dà il titolo al suo libro Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, Verso, Londra – New York 2011. [ndt]

5 Électricité de France: la maggiore azienda produttrice e distributrice di energia in Francia. [ndt]

6 Zone à Defendre («zona da difendere»): occupazione collettiva di un terreno (di proprietà statale o privata), generalmente volta ad impedire la costruzione di un’opera pubblica considerata nociva e a promuovere modi di vita alternativi. [ndt]

7 L’Assemblée des assemblées è stato uno dei tentativi organizzativi avvenuti in seno al movimento dei Gilets Jaunes. Basata sul principio della «presa di parola» e su processi decisionali riconducibili alla democrazia diretta, essa si è riunita in tutto quattro volte, tra la fine del 2019 e la prima metà del 2020. [ndt]

8 Cfr. Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli, Milano 2015. Blockadia non è «un luogo preciso sulla mappa, ma piuttosto una rovente zona di conflitto transnazionale che sta spuntando con crescente intensità ovunque ci siano progetti estrattivi che tentano di scavare e trivellare, che si tratti di miniere a cielo aperto, di fratturazioni idrauliche o di oleodotti per il petrolio delle sabbie bituminose. Ciò che unisce queste sacche di resistenza (…) è che quanti combattono in prima linea – affollando i consigli comunali, marciando nelle capitali, facendosi portare via sui furgoni della polizia, o persino frapponendosi fisicamente tra le ruspe e la terra – non assomigliano molto ai tipici attivisti; né le persone di un sito Blockadia assomigliano a quelle di un altro sito. Assomigliano tutti al luogo in cui vivono e si assomigliano tutti tra loro: negozianti locali, professori universitari, liceali e nonne.» (Ibidem). [ndt]