RIFLESSIONI INTEMPESTIVE ALLO SVANIRE DEL SUONO DEI TAMBURI
Pensamientos intempestivos al acabar de sonar el tambor, 14 giugno 2011.
Quando gli eccessi del dominio provocano proteste la cui realtà viene certificata dai mezzi di comunicazione, si crea un’illusione di coscienza, un apparente risveglio che sembra annunciare la ricomparsa della questione sociale e il ritorno del soggetto destinato a diventare il protagonista di un nuovo cambiamento storico. Tuttavia, dopo aver constatato il carattere triviale e frivolo delle principali rivendicazioni e aver sentito ripetere grossolanamente le ideologie progressiste, i nostri dubbi svaniscono vedendo chi ha fatto il suo ritorno in questa protesta consentita: nient’altro che il cadavere del soggetto. Si continua a non affrontare in profondità la questione sociale, mentre escono allo scoperto tutti gli scheletri conservati negli armadi delle ideologie. Per quanto possa contenere un certo grado di verità, una protesta che nuota in acque stagnanti, inquinate dai resti putrefatti delle precedenti pseudo-agitazioni, non è il luogo più adatto per riformulare un progetto di cambiamento radicale. Per quanto adotti meccanismi decisionali orizzontali, sebbene si costituisca in assemblea, le persone che vi prendono la parola sono, nella maggior parte dei casi, impostori o aspiranti tali. La ragione si sente impotente di fronte alla valanga di luoghi comuni tirati fuori dalle pattumiere della Storia e deve constatare come il dominio capitalista – il sistema – non solo non è retrocesso di una virgola ma, manipolando le sue vittime, ha creato una falsa opposizione civile per spegnere i fuochi della ribellione. Non potrebbe essere altrimenti. La classe operaia è stata sconfitta irrimediabilmente trent’anni fa e al suo posto sono rimasti solo i resti che il sindacalismo minoritario non riesce e non riuscirà a far rivivere, assieme a un ghetto giovanile di militanti e refrattari, dai ranghi ridotti e parzialmente impantanato. Di nessuna utilità per ripartire da quello che Hegel chiamava “il rude lavoro dell’intelletto”, per mostrare alle nuove generazioni che quando cercheranno di afferrare il concetto, andranno a sbattere contro il luogo comune. In tutte le nuove proteste spettacolari, sono sempre presenti due tratti caratteristici: per prima cosa, un gran numero di amici sospetti che, attraverso i media ufficiali, ponderano, riargomentano e giustificano una protesta, opportunamente decaffeinata, in special modo nei suoi aspetti più ripugnanti, dalla quale potano con fermezza i suoi germogli più radicali. Secondo, una volontà ossessiva di non farsi dei nemici, né nelle forze dell’ordine, né nei partiti, né nello Stato e nemmeno nell’economia: tutte le proposte, di minima o di massima, per quanto strane possano suonare, rimangono all’interno del sistema.(altra cosa è se il sistema decida di incorporarle). Di qui il pacifismo malaticcio, il suo rovescio ludico-festivo, l’ambiguità nei confronti delle elezioni e la preferenza per misure che implicano un maggior potere conferito allo Stato e un maggiore sviluppo economico (più capitalismo), caratteristiche che determinano un’ideologia specifica, il cittadinismo, l’esatto riflesso di una maniera di pensare a vuoto, che non fatica a radicarsi nel terreno fertile della futile contestazione. Almeno una cosa deve essere chiara: la protesta cittadinista non mette in discussione il sistema, non cerca di sovvertire l’ordine stabilito né vuole metterne un altro al suo posto. Ciò che vuole è farsi accettare da esso, perciò non propone un modo di vivere (e di produrre) radicalmente opposto al modello vigente. Il suo programma, qualora ne elabori uno, non andrà molto al di là di riforme destinate ad aprire la strada alla collaborazione istituzionalizzata e alla spartizione con la classe dominante delle conseguenze della crisi economica in modo più equilibrato. È un semplice invito al civismo rivolto al dominio. Non si tratta affatto di trasformare la condizione di salariato, votante, automobilista e ipotecato ma di mantenerla – se ciò è possibile – attraverso l’impiego stabile, le riforme elettorali, le misure di controllo sulle banche e un salario sufficiente. La condizione di proletario sussiste, ma dissimulata dietro una presunta condizione di cittadino. La lotta per la sua abolizione non è più una feroce disputa tra le classi per il controllo e la gestione dei mezzi di produzione e dello spazio sociale, come avvenne in passato, ma il tranquillo esercizio di un diritto politico nell’ambito di uno Stato accessibile e neutrale. Esiste realmente la “cittadinanza”? Si tratta di una nuova classe? Sono domande per rispondere alle quali bisogna tener presente una verità incontrovertibile: né il proletariato industriale residuale né il suo erede contemporaneo, la massa salariata, sono intrinsecamente rivoluzionari, né oggettivamente né soggettivamente. La principale forza produttiva è la conoscenza, non il lavoro manuale; d’altra parte, per quel che riguarda il soggetto, le lotte semplicemente rivendicative non distruggono il capitalismo ma lo modernizzano grazie alla burocrazia del lavoro a cui hanno dato vita. L’apparato sindacale e politico dissolve la coscienza di classe e facilita l’integrazione e la sottomissione. Inoltre, l’aumento della produzione è fondamentalmente distruttivo, motivo per cui il lavoratore non può disinteressarsi delle conseguenze del suo lavoro e ancor meno desiderare di autogestirlo. La classe operaia ha esaurito il proprio ruolo storico, legato a una tappa dello sviluppo capitalista ormai conclusa, e i suoi surrogati odierni non possono giocarne un altro senza condannare la funzione che ricoprono all’interno del sistema, come prima cosa, e senza dichiarare la necessità di separarsene: tuttavia, senza coscienza e senza morale ciò non è possibile. La fine del proletariato come classe lascia deserto il terreno della lotta sociale, privo di soggetto, alle mercé delle classi medie (che il sistema stesso frammenta, disperde ed esclude proprio come fa con le classi lavoratrici) al cui interno non fiorisce di nuovo la vecchia teoria rivoluzionaria del proletariato bensì la moderna ideologia cittadinista, brandita come arma.anti-radicale e strumento di cooptazione per tutti i partitini, gruppuscoli, reti e liste elettorali che pullulano nei movimenti di protesta della post-modernità, infiltrandoli, banalizzandoli e corrompendoli. Come avvenne ai tempi in cui c’era la lotta di classe, l’ideologia di sinistra contribuisce all’ammodernamento sindacale e politico del capitalismo, solo che allora lo fece in nome del proletariato mentre oggi lo fa in nome di una entelechia, la “cittadinanza”. Fare riferimento alla cittadinanza, cioè a tutti gli abitanti sottomessi allo Stato, è puramente retorico, come un tempo il riferirsi al “popolo”. La cittadinanza non esiste, è un’entità irreale che alberga nella mentalità progressista e che serve come soggetto posticcio, come referente per qualsiasi cosa. Nonostante la sua inesistenza, la si trova dappertutto: dal.discorso del potere è passata nel linguaggio militante di strada. È molto utile a chi, come quelli di sinistra, cerca di ottenere visibilità e influenza nelle proteste generazionali infettandole con l’ideologia populista, col settarismo manipolatore e con l’operaismo rassegnato, di modo che i radicali che vi sono presenti facciano come loro oppure si disgustino e se ne vadano via. Di solito non ci riescono al primo colpo, motivo per cui il sistema stesso fornisce loro lo stimolo attraverso i suoi ingenti mezzi virtuali, lanciando oscuri appelli e dando vita a processi che si auto-contengono e che, offrendo ai partecipanti qualche giorno o qualche settimana di gloria tollerata nelle piazze, diano loro la sensazione di essere per un momento i padroni della.baracca, come a Tahrir o alla Sorbona nel ‘68. L’operazione può sfuggire loro di mano, ma cosa può temere il sistema da comportamenti che scaturiscono dalla “educazione alla cittadinanza” promossa nelle manifestazioni, che come una nuova moda si diffonde tra la gioventù della classe media che le compongono? Come possono fargli paura l’edonismo da botellón, il fanatismo per la non-violenza, l’animosa gestualità, il consenso mutilante, l’allegra cacerolada (1), la comunicazione su Twitter? Questi comportamenti vengono presentati come innovatrici pratiche di libertà, sebbene questo tipo di libertà abbondi nella società di schiavi e serva a poco per assaltare i Palazzi d’Inverno. Ma oggi, chi vuole e, peggio ancora, chi può.assaltare un centro del potere? L’unica cosa che le proteste chiedono è dialogo e partecipazione. Siamo immersi in un duro processo di adattamento alla crisi portato avanti dallo Stato secondo le linee direttrici indicate “dai mercati”, un assestamento violento che fa vittime dappertutto: lavoratori, pensionati, funzionari, impiegati pubblici, immigrati e… la gioventù declassata. Se la maggior parte della gente a mala pena ha un presente assicurato, di certo i giovani – quasi la metà disoccupati – hanno il futuro ipotecato: è per questo che protestano, però non contro il sistema che li ha emarginati, ma contro quelli che considerano i responsabili, i politici che governano, i sindacalisti che tacciono e i banchieri che speculano. Che questi se ne vadano e che ne arrivino altri. Queste proteste segnano l’inizio di un’epoca confusa in cui un terzo della società civile si sta mobilitando in un modo o nell’altro ai margini delle istituzioni, anche se non è contraria ad esse. Non si sente ben rappresentata da una democrazia che “non lo è”, dato che essa non vi partecipa; è per questo che vorrebbe riformarla. Non vuole distruggere il potere separato, piuttosto separare i poteri costituiti. Per la classe media precarizzata che si appropria del concetto borghese di democrazia Montesquieu non è morto, però sarebbe utile ricordare che non lo è nemmeno Franco, che la democrazia che è stata “tanto faticosa da ottenere” – e che costoro rivendicano – viene da un patto per riconvertire l’apparato politico-repressivo della dittatura che è stato edificato sulle fogne dello Stato. Le proteste si svolgono in un ambiente considerato quasi naturale da quelli che vi partecipano: l’ambiente urbano. Tuttavia si tratta di uno spazio creato e organizzato dal capitale, il più indicato per dare forma al suo mondo e.svilupparlo. Le metropoli e le conurbazioni sono gli elementi fondamentali dello spazio della merce, uno scenario neutralizzato e monitorato che funziona come una fabbrica, in cui la comunicazione diretta, e quindi la coscienza e la ribellione, sono quasi impossibili. Qualsiasi vera rivolta deve.lottare per liberare lo spazio dai segni del potere e aprirlo all’incontro, a.vantaggio della decolonizzazione della vita quotidiana: deve essere una.rivolta contro la società urbana. La questione sociale è essenzialmente questione urbana, motivo per cui il rifiuto del capitalismo implica quello.della conurbazione, suo recipiente idoneo. In questi dormitori videosorvegliati chiamati quartieri una svolta nel condizionamento consumista e politico può prodursi solo se le assemblee che si riuscissero a formare durante la crisi diventassero delle contro-istituzioni, a partire dalle quali sia possibile criticare il modello urbano metropolitano ed elaborare un modello alternativo in armonia con il territorio. Nelle assemblee rappresentative di quartiere può emergere un soggetto autonomo, una nuova classe che resista alla problematica cittadinista che giunge dalle piazze, sollevando e spiegando la questione urbana (autonomia del quartiere, logistica autogestita, un contatto reale con la campagna, occupazione degli spazi pubblici, recupero del sapere artigiano, anti-consumismo, lotta contro i piani urbanistici e le infrastrutture, ecc.). Nulla di tutto ciò si può cogliere nelle proteste, che sembrano trovarsi a loro agio nel respirare l’aria inquinata dell’ambiente urbano, una parte del quale hanno trasformato in agora cittadina, luogo in cui la superficialità cittadinista ha carta bianca. Succede così perché la mentalità della classe media ha assunto il comando della mobilitazione e i suoi rappresentanti hanno preso l’iniziativa. Per questo motivo la crisi sociale si manifesta solo come crisi politica, crisi del sistema politico, come momento politico delle ricette cittadiniste. Il cittadinismo è l’ideologia che meglio si adatta alle conurbazioni, dato che non ha realmente bisogno di uno spazio pubblico per riprodursi, ma di qualcosa che gli assomigli, una sorta di spazio formale e simbolico in cui rappresentare un dibattito apparente. Affinché possa aver luogo un dibattito reale deve esistere un pubblico reale, una comunità di lotta; ma una comunità di questo tipo – un soggetto collettivo – è tutto il contrario di un’assemblea cittadinista, aggregazione volatile di individualità mutilate che imita i gesti della discussione diretta senza per questo andare a finire nella direzione richiesta, dato che evita accuratamente il rischio sfuggendo il combattimento. Le sue battaglie non sono che semplice chiasso e il suo eroismo nient’altro che una posa. Una comunità di lotta – una forza sociale storica – può formarsi solo a partire da una volontà cosciente di separazione,.da uno sforzo disertore figlio dell’opposizione totale al sistema capitalista o, che è lo stesso, dalla messa in discussione radicale dello stile di vita industriale, cioè dalla rottura con la società urbana. Disoccupazione giovanile o tagli del budget, il punto di partenza non ha molta importanza se gli animi che si scaldano vanno tutti nella stessa direzione; la cosa più importante è la.conquista di un’autonomia sufficiente per discostarsi dai canali stabiliti dandando al fondo della questione – la libertà – senza mediatori “responsabili”.né tutori vigilanti. E ciò non si ottiene che prendendo chiaramente le distanze dalla fazione del dominio e preparandosi a una lotta lunga e ardua contro di esso.
NOTE
1. La cacerolada è una manifestazione rumorosa in cui si suonano le pentole come tamburi; il botellón consiste nel ritrovarsi per strada a bere, chiaccherare e suonare al posto di recarsi nei locali, ed è stato duramente represso in tutte le città spagnole.