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Resistenza animale e confini di specie. Tra dominio umano, film d’animazione e ribellioni

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Glossario

antropocentrismo dal greco anthropos (essere umano) e kentron (centro); è la credenza, visione o teoria che posiziona l’essere umano al centro di tutto ciò che esiste. Esso è la base delle azioni che oggettificano l’ecosistema e chi ne fa parte per raggiungere obiettivi che soddisfino i bisogni e i desideri della specie umana;

specismo convinzione che gli umani debbano godere di un’importanza superiore a quella degli altri animali, nasce da un pensiero antropocentrico;

rifugi antispecisti luoghi in cui gli animali da reddito trovano rifugio e in cui non è contemplato l’utilizzo dei loro corpi. Il rifugio antispecista (che va considerato un compromesso, non una soluzione) mira a tutelare gli individui rifugiati affinché possano autodeterminarsi e vivere in libertà (nei limiti dei recinti, figli di una società dominata dall’essere umano, dal profitto e dalla proprietà privata). L’obiettivo di un rifugio è di tamponare un problema endemico, e di puntare ad una società in cui il rifugio stesso non è necessario. Alcuni rifugi presenti in Italia fanno parte della Rete dei Santuari (http://www.animaliliberi.org/site/), mentre molti altri non ne fanno parte.

Ringrazio il mio amico Den per avermi dato una mano con la revisione del contenuto.

Introduzione

Il discorso sulla resistenza degli altri animali è sempre un tema delicato che non sempre è facile da elaborare. Ogni giorno ci sono svariate notizie riguardo ad individualità che fuggono da allevamenti, zoo, circhi, acquari. Ma come reagisce l’opinione pubblica a queste notizie? Quanto impatto hanno sugli individui? Quanto queste azioni vengono prese sul serio?

Un animale non umano che colpisce il suo aggressore, che scappa, che si disorienta tra le automobili delle realtà urbane, o che attraversa a nuoto lo stresso di Messina [1] è spesso oggetto di curiosità, divertimento, derisione e anche di invisibilizzazione e repressione; coloro che necessitano di difendere la cultura specista perché ne traggono profitto o perché vogliono rimanere nella propria zona di comfort, utilizzano sempre le medesime argomentazioni; esiste in generale un preciso intento nel minimizzare queste azioni che vengono additate come irrazionali, casuali ed isolate. Credo che ci ostiniamo continuamente ad ignorare queste azioni o a rifiutarle come atti di resistenza perché ci spaventano; abbiamo paura di riconoscere che la centralità di specie che ci siamo datз sia infondata, così come ammettere che anche le altre specie abbiano molti bisogni ed emozioni in comune con la specie umana. Detronizzarci e rinunciare ai nostri privilegi ci terrorizza, quindi minimizziamo l’esistenza di individui di altre specie definendoli irrazionali, inferiori e “meno intelligenti”. Ma, dato che considerare qualcunə (a prescindere dalla specie) come più/meno intelligente lascia intendere che ci sia uno standard di riferimento per giudicare l’individuo, qual è questo standard di intelligenza? A chi giova mantenerlo? E perché?

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Il tema della resistenza animale è decisamente molto ampio e non è stato approfondito in questo testo intenzionalmente; volevo che il testo fosse una lettura basilare, uno spunto di riflessione.

Nel testo affronto principalmente tre argomenti, e lo sviluppo degli stessi parte dalla riflessione sul dominio che la specie umana esercita sugli ecosistemi e sulle altre specie. Parlerò brevemente dei contenuti di alcuni cartoni animati/film d’animazione, per poi passare all’analisi di una lettera scritta da un proprietario terriero nel 1880, dove quest’ultimo racconta la ribellione di animali non umani scoppiata realmente nella sua fattoria lo stesso anno; da qui riporterò alcune mie analisi e considerazioni personali sui confini di specie: ovvero dei confini architettonici, culturali ed economici con cui molti animali non umani si ritrovano a scontrarsi quando e se riescono a fuggire dai luoghi in cui vengono detenuti.

Inoltre, raramente userò il termine generico “animali”. Anche se può sembrare scontato bisogna tenere bene a mente che l’essere umano rientra nel regno animale ed usare il termine “animale” per generalizzare e riferirsi agli altri animali risulta errato. La differenza tra umano e animale è una costruzione ideologica funzionale a mantenere una certa distanza tra i due e far elevare il primo oltre il secondo. La stessa dinamica può essere notata con altre dicotomie come uomo/donna, biancə/nerə, poverə/riccə… sono tutte costruzioni politiche; cambiano nella forma, ma non nella sostanza. L’essere umano è un animale, per cui userò un tipo di linguaggio coerente con questo chiarimento.

Resistenza non umana nei film d’animazione

Se penso alla mia infanzia ci sono alcuni film d’animazione che riconosco mi siano rimasti parecchio impressi, film che hanno avuto un forte impatto su moltз altrз che hanno vissuto l’infanzia tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo secolo. Film – o cartoni animati – distribuiti in tutto il mondo, e che ancora oggi vengono ricordati e (ri)visti con piacere. Ciò di cui non si parla spesso è che in molti di questi film è possibile scrutare messaggi di resistenza animale; che questi messaggi siano stati inseriti volutamente da chi ha ideato questi film o meno, possiamo solo dedurlo.

Bisogna però ammettere che in molti film di questo genere si palesa un approccio problematico che però non approfondirò in questo testo, e mi riferisco all’umanizzazione degli animali non umani (doppiaggio vocale, vestiti, sembianze antropomorfe, presenza di oggetti artificiali utilizzati solo dagli umani etc…). Tuttavia, quello che vorrei fare è focalizzarmi su altri aspetti, non perché io non lo ritenga un aspetto importante, ma per focalizzare il contenuto sull’aspetto rivoluzionario che accomuna gli animali protagonisti di questi film. Sia chiaro che non ho riportato tutti i film d’animazione che presentano queste caratteristiche e che il testo va considerato come un input piuttosto che come un’analisi approfondita.

Come detto inizialmente, ci sono film d’animazione che se osservati e capiti riescono a trasmetterci messaggi sulla resistenza al dominio umano davvero forti. Il primo film di Madagascar racconta di un gruppo di diverse specie di animali che organizza la propria fuga dallo zoo di New York per dirigersi in Africa; Spirit cavallo selvaggio, parla di un cavallo che rifiuta di farsi addomesticare dall’umano; [2] Penso spesso a King Kong, anche se non è un film d’animazione. Non posso non pensare al grande gorilla ogni volta che vedo o sento persone scegliere di andare in un circo, in un acquario o in uno zoo. Molte persone che frequentano questi luoghi di prigionia e sfruttamento a scopi di intrattenimento sono spesso le stesse che appoggiano la ribellione del grande gorilla nell’omonimo film, mentre viene strappato dalle sue radici per mano dell’umano così da portarlo nel mondo civilizzato con l’obiettivo di sfruttare il suo corpo per fama e denaro. Un fenomeno da baraccone, un intrattenimento; penso che qualcunə sarà d’accordo con me se dico che Le avventure del bosco piccolo, con la sua schiettezza e cruda realtà, ha traumatizzato un’intera generazione. Forse uno dei cartoni animati più particolari degli anni ‘90, non lascia spazio alle falsità e mostra il volto violento del capitalismo e del dominio umano che attaccano l’ecosistema e di conseguenza i suoi abitanti. Nelle scene del cartone animato l’essere umano non viene mai mostrato in volto, ma vengono mostrate le sue tracce: macchinari, disboscamento, distruzione, morte. Ogni abitante del bosco sa bene che quando la presenza dell’umano viene percepita sta per succedere qualcosa di terribile; uno dei capolavori più amati è probabilmente la Principessa Mononoke, [3] da osservare la chiara direzione ecologista ed anti-antropocentrica in cui l’autore Miyazaki condanna la fame espansionistica della specie umana che depreda, disbosca e uccide noncurante delle conseguenze di chi abita quelle foreste. Nel film è anche presente uniniziativa violenta di azione diretta da parte dei cinghiali contro insediamenti umani, questi ultimi impegnati a distruggere la foresta per poter lavorare il ferro; infine, uno dei film d’animazione che mi ha sicuramente colpito di più è stato Galline in fuga. Il guardiano col cane, le reti, il filo spinato, l’uccisione delle galline improduttive: l’atmosfera è cupa e violenta. Alcune galline dell’allevamento accettano il loro ruolo subalterno, il loro “mestiere”, come dicono nel film; si traccia una linea di evidenziamento in cui le galline rappresentano sia la forza lavoro che il prodotto finale.

Il signor Tuidy – il guardiano – è l’unico che sembra vedere l’agire delle galline, il loro spirito rivoluzionario. Più volte tenta di parlarne alla proprietaria dicendole che le galline organizzeranno presto una rivolta, ma la proprietaria ordina lui di stare in silenzio; non è qualcosa a cui dà importanza. “Idee ridicole su galline che scappano. Ti si è storto il cervello?” La proprietaria ha inoltre un piano per portare l’allevamento a guadagnare di più utilizzando un innovativo macchinario industriale – chiamato il forno – in grado di uccidere, smembrare e cuocere le galline in un processo automatizzato; macchinario perfetto sia per velocizzare un processo mirato ad un ritorno economico che ad ampliare la distanza tra chi uccide e chi viene uccisə, processo ben conosciuto ed adottato in grandi impianti di smembramento come i macelli.

Le galline dell’allevamento affrontano un momento di sconforto e capiscono che probabilmente moriranno presto, e molte di loro sembrano accettare questa sorte. Una gallina, disillusa, si rivolge ad un’altra dicendole che scappare dall’allevamento è impossibile: le possibilità sono una su un milione, dice; ma la risposta della gallina è chiara: è sempre una possibilità. O moriremo da galline libere o moriremo provandoci”.

Andrebbe evidenziato come, nel mondo reale, questa “possibilità su un milione” venga spesso tentata dagli animali non umani; si ribellano, fuggono, a volte uccidono i loro sfruttatori, ma vengono tacciati, ignorati, minimizzati e derisi. Le storie delle loro fughe sono spesso oggetto di curiosità e divertimento, ma raramente vengono prese sul serio. Anche se può sembrare paradossale è probabile che, come il signor Tuidy, chi sfrutta in prima persona le altre specie sia molto più consapevole delle loro azioni sovversive, per il semplice fatto che il proprio lavoro consiste anche nel mantenere un certo ordine, e quindi nel sedare queste ribellioni.

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Tuttз noi, da bambinз e da adulti, abbiamo sperato che gli animali protagonisti di questi film si salvassero, ed eravamo dalla loro parte quando gli umani volevano catturarli o ucciderli; ci sentivamo solidali con loro, ma forse non tuttз abbiamo avuto gli strumenti necessari a cogliere i dettagli per riconoscere la macchina specista descritta in questi film animati.

La rivolta degli animali” in una fattoria del 1880

Un grosso maiale grugniva delle umiliazioni che l’uomo porta al genere suino, definendo “porcate” tutte quelle cose che a lui sembrano spregevoli Mykola Kostomarov

Recentemente mi sono imbattutə in una lettera scritta dall’ucraino Mykola Kostomarov, un proprietario terriero che nel 1880 scrisse ad un suo amico a Pietroburgo [4] per raccontargli di un fatto incredibile. Nella lettera, Kostomarov racconta di una rivolta degli animali allevati che scoppia proprio in uno dei suoi terreni.

Premetto che la lettera è molto romanticizzata e gli animali di cui si raccontano le gesta sono antropomorfizzati (ad esempio egli riporta, in linguaggio umano, il monologo tenuto da un toro verso gli altri animali, toro che a suo dire fece da sobillatore). Tuttavia, le riflessioni che la ribellione fece scaturire in Kostomarov sono davvero interessanti, e il modo in cui descrive la ribellione e le personalità di diversi animali allevati è degno di nota; ho trovato sorprendente un’analisi del genere se consideriamo il periodo, 140 anni fa circa, in cui l’attenzione verso gli animali non umani – in particolare quella verso gli animali allevati per essere mangiati o indossati – era decisamente meno presente rispetto ad adesso; [5] Kostomarov sembra infatti essere riuscito ad immedesimarsi molto bene negli animali da lui (e dai suoi servi) schiavizzati; spunti di analisi sulla resistenza animale che non hanno nulla da invidiare ad alcune più contemporanee.

Kostomarov inizia il racconto dicendo

Già nella primavera del 1879 nel mio podere iniziarono a notarsi tra bestie di varie denominazione segni di resistenza e disubbedienza; era entrato una sorta di spirito rivoluzionario diretto contro il potere umano.

La lettera descrive poi in che modo la ribellione inizia e continua: i maiali attaccano e distruggono l’orto, le galline e le colombe si posizionano strategicamente per beccare gli umani, anche il gatto sembra essere ostile al padrone. Gli unici animali non umani che non si ribellano e che rimangono invece fedeli al padrone sono i cani, che vengono successivamente aizzati sullз rivoltosз.

Kostomarov, lasciandosi trascinare dalle sue riflessioni e immaginando se stesso come uno dei cavalli della fattoria, scrive

Loro [gli umani] non chiedono ai cavalli se hanno voglia di andare con loro in guerra, li sellano, salgono in groppa e vanno a combattere; non pensano al fatto che può essere che il nostro fratello non abbia voglia di morire senza sapere per qual motivo muore. [L’uomo] carica sui suoi carri o sulle slitte ogni tipo di peso, lega il nostro fratello e lo costringe a trascinarli, mentre lui, guidandolo, lo colpisce impietosamente con le fruste sulla schiena, sulla testa e dove gli capita.

Successivamente, ad uno degli schiavi di Kostomarov viene ordinato di andare in città e chiedere un invio di forze militari per soffocare la ribellione

Ma non appena il mio inviato, preso un cavallo da galoppo, se ne uscì dalla cancellata, questo cavallo si scrollò di dosso il cavaliere e se ne andò dai cavalli ribelli. I cani, come ci si doveva aspettare dalla reputazione che si sono fatti, non mostravano la benché minima inclinazione a far parte della rivolta. Noi ci affidammo a loro.

[…]

Arrivammo alla piccionaia e ci mettemmo a salire lungo la stretta scaletta; qui cominciarono a volarci contro i colombi, come se avessero l’intenzione di batterci con le ali e colpirci con il becco; ci mettemmo a scacciarli, sospettando anche questi uccelli, quieti e teneri, come ci eravamo abituati a ritenerli, si fossero avvicinati allo spirito di ribellione che già si era impadronito di tutto il regno bipede e quadrupede degli animali sottomessi all’uomo; ci sembrava che si fossero ricordati di quei momenti, amari per loro, in cui appariva nella piccionaia il cuoco con il suo coltello assassino a cercare piccioni per l’arrosto.

Purtroppo, come si potrà ben immaginare, la ribellione non ebbe un esito positivo. Tra spari e violenza da parte di Kostomarov e dei suoi servi, alcuni animali morirono e altri, tra cui mucche, capre e cavalli riuscirono a fuggire; alcuni vennero ritrovati e ricomperati nei giorni successivi, altri tornarono di loro spontanea volontà dopo qualche mese

Gli animali, vedendo che nei campi non c’era nulla di cui nutrirsi, smaltirono la sbornia dovuta alla seduzione di una vana libertà e di loro volontà tornarono ai propri recinti. Lì giunsero a capo chino anche i principali sobillatori: il toro che aveva aizzato i bovini e lo stallone sauro che aveva incitato gli equini alla rivolta.

Confini di specie e ambienti umani

Non sappiamo se nel periodo successivo all’invio della lettera, l’esperienza abbia fatto riflettere ulteriormente Kostomarov; purtroppo non sembra si trovi molto materiale riguardo questa storia.  Questo triste epilogo dovrebbe farci riflettere però sul perché molti animali non umani dopo la fuga tornino nelle proprie gabbie (ed è qualcosa che, purtroppo, succede realmente). Possiamo dividere l’analisi su tre punti:

1) innanzitutto c’è da sottolineare che, anche se in modo più capillare rispetto al 1880, gli animali non umani che scappano dal dominio umano si ritrovano a fronteggiare dei confini di specie, un tipo di ambiente che non conoscono e che li esclude: un ambiente industrializzato e pieno di palazzi, fabbriche, strade, recinti. Un ambiente a misura d’umano. Inoltre questз fuggitivз non possiedono neanche il tempo materiale per studiare i dintorni ed ambientarsi per trovare una via di fuga adatta (per poi affrontare un altro ambiente antropizzato), perché saranno immediatamente catturati dagli umani e riportati nelle loro gabbie o, se indomabili, uccisi. È fondamentale tenere a mente questo punto perché ci porta a realizzare che evadere da una gabbia non significa automaticamente ottenere la libertà, il discorso è molto più complesso. In questo caso una presunta liberazione animale non può essere raggiunta all’interno di un apparato industriale e i suoi cementificati insediamenti umani in continua espansione.

Gli animali non umani sono segregati in una prigione che va oltre la struttura fisica degli allevamenti, dei macelli, dei laboratori, dei circhi e altro ancora: è una prigione sociale, culturale, economica, protetta e tutelata dai tanto romanticizzati Stati democratici in cui anche l’umano è imprigionato: vittima e carnefice di se stesso e garante di un meccanismo che sacrifica continuamente interi ecosistemi ed individui (umani e non umani) per soddisfare specifiche esigenze economiche. L’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli che abitano dati ecosistemi sono variabili che non vengono contemplate; se una zona è potenzialmente sfruttabile per aumentare il profitto economico, quel sito verrà considerato bene economico di enorme importanza. [6]

In questo rientrano chiaramente anche le popolazioni non umane che, come abbiamo già spiegato, sono molto più vulnerabili degli esseri umani dato che non conoscono i meccanismi e i dispositivi del sistema umano e non sono neanche tutelati da quest’ultimo, se non che da pochi gruppi di umani poco attrezzati. Finché un individuo non avrà i mezzi adatti per raggiungere l’autonomia, rimanendo imprigionato in questo sistema industriale e culturale; finché i suoi movimenti gli saranno limitati o negati da dispositivi fisici e socio-culturali che lo escludono, non ci sarà nessuna liberazione. Finché le nostre vite rimarranno attaccate ai supermercati, al petrolio, alle industrie, alla delega politica e in generale alla dipendenza da questo sistema, rimarremo incastratз in questa grande prigione chiamata progresso;

2) in secondo luogo, senza la mano artificiosa dell’umano, molte delle specie che conosciamo che vengono sfruttate nell’industria zootecnica non esisterebbero, o non esisterebbero per come sono adesso. La violenza genetica cui sono sottoposti questi individui limita i loro movimenti fisici e crea complicanze per la loro salute; non solo possiamo vedere questo in animali come mucche e maiali (i gruppi addomesticati perlomeno), ma anche in alcune classi di diverse specie chiamata razze che senza l’intervento umano e le sue manipolazioni genetiche non esisterebbero; ad esempio, a varie classi di cani come i boxer è stata riservata una violenza inaudita: problemi di respirazione e complicazioni cardiache sono molto comuni e spesso, durante i mesi più caldi, rischiano di avere un collasso fisico. I boxer, come altre specie o sotto-classi, non esisterebbero senza l’intervento della specie umana; molti di loro, proprio a causa di queste complicanze, necessitano di una costante assistenza sviluppando di conseguenza una dipendenza dall’umano. La manipolazione genetica che l’umano esercita sulle altre specie è violenza, e bisogna accettare che in un’ipotetica società futura non specista – se mai esisterà – molti gruppi di animali non umani non esisterebbero. Molti si estinguerebbero.

Una persona vegana qualche mese fa mi ha criticato – in modo velatamente scherzoso – asserendo che io voglia “far estinguere i gatti” dopo aver dibattuto di confini di specie e carne coltivata. Quando si dice che l’antispecismo coinvolge il veganismo ma non il contrario, ci si riferisce proprio al rifiuto, da parte di alcune persone, di iniziare a preparare la strada per un futuro senza l’umano al centro del Tutto, senza il suo dominio su un’altra specie. Spesso si ignora l’importanza di intraprendere un percorso nel qui ed ora con l’obiettivo di dare spazio vitale e libertà di autodeterminarsi agli altri animali, questi ultimi spesso infantilizzati e minimizzati proprio da molte persone vegane. Se non riusciamo ad immaginare un mondo senza specie geneticamente modificate forse manchiamo di fantasia, o forse siamo troppo attaccatз alla loro presenza. Ma è inevitabile che una società senza specismo (e senza industrie, estrattivismo, capitalismo, comunismo di stato etc…) preveda anche la scomparsa graduale di specie che esistono solo perché vengono continuamente (ri)prodotte per conseguire fini economici.

Vorrei poi dire, senza neanche andare troppo fuori tema, che considero estremamente problematico l’attaccamento morboso al protezionismo e l’attenzione prioritaria verso le specie “in via di estinzione”. Non sono contro il supporto verso queste specie, ma sono contro questa piramide d’importanza che posiziona una specie in via di estinzione sopra una specie che non lo è, come se la prima fosse automaticamente più oppressa della seconda; come se la prima fosse più bisognosa di aiuto della seconda.

Mi viene da chiedere: cosa ci preoccupa di più? La vita in pericolo di un individuo, che prescinde quindi dalla specie di appartenenza, o il fatto che la sua scomparsa minerebbe lo studio dell’essere umano verso quella data specie, eliminando ogni possibilità di soddisfare la nostra curiosità?;

3) infine è necessario parlare di alienazione e di rassegnazione, infatti non sorprende che gli animali scappati dalla fattoria di Kostomarov siano tornati da lui. Probabilmente era l’unico modo per loro per continuare a sopravvivere. Mi viene in mente quanto scritto da Frederick Douglass nel suo celebre diario Memorie di uno schiavo fuggiasco quando racconta, una volta “libero”, come altrз schiavз sostenessero che continuare a vivere con il padrone fosse da loro auspicabile e che, dato che erano provvistз di un tetto sulla testa e di cibo, non era poi così male vivere lì. Dal punto di vista di queste persone era quindi più conveniente accettare la condizione di schiavitù a loro imposta, piuttosto che affrontare la società a misura di bianco al di fuori di quella bolla, che rimaneva comunque violenta e coercitiva.

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Per rispondere ad alcunз, è necessario sottolineare che non è vero che gli animali non umani sono incapaci a liberarsi per loro limiti innati o perché manca in loro il presupposto iniziale nel riconoscere la propria oppressione e scatenare di conseguenza una ribellione; se gli animali non umani non riescono a liberarsi è perché l’ambiente intorno a loro è violentemente delimitato e appartenente ad una cultura e ad un’organizzazione sconosciute alle loro specie di appartenenza; non riescono a liberarsi perché manipolati geneticamente al punto di non potersi muovere fisicamente per via delle gravi condizioni di salute; non riescono a liberarsi perché vivono in un sentimento di alienazione e rassegnazione; e le specie che vivono in autonomia sono costantemente in pericolo, perché in un qualsiasi momento l’essere umano potrebbe invadere i loro spazi e disboscare le loro foreste, bucare le loro montagne e disintegrare quindi le loro case.

Se pensate che quanto detto sia solo un vano tentativo di umanizzare altre specie attribuendo loro dei sentimenti “umani” o, come detto da alcunз teoricз antispecistз, avere la presunzione di politicizzarli, e se ne avete la possibilità, entrate in un allevamento ed osservate il modo in cui gli animali non umani lì segregati si comportano, il modo in cui si approcciano a voi e agli altri animali non umani lì presenti; dopodiché visitate i rifugi antispecisti o altri luoghi in cui questi individui vivono lontani dallo sfruttamento umano, e notate le differenze di approccio, come il modo in cui un animale non umano che è stato schiavizzato per anni riesce gradualmente a guarire (anche se non sempre), e rispettate coloro che non lo faranno perché traumatizzatз dall’umano e terrorizzatз dalla sua presenza.

Gli individui rifugiati in questi luoghi potranno anche mostrare facilmente diffidenza verso di noi, e va bene così. La loro presenza, le loro attenzioni, il perdono, la guarigione dal trauma: nulla ci è dovuto.

Ascoltiamo, osserviamo, e ci si aprirà un mondo.

[…] per tener buono uno schiavo bisogna renderlo spensierato, annebbiarne le facoltà intellettuali e morali e, se possibile, privarlo dell’uso della mente. Bisogna indurlo a non trovare nulla di anormale nella schiavitù; anzi, fargli

sentire che è una cosa giusta. [7]

 

Conclusione

Vorrei concludere con un breve racconto riguardo un’esperienza molto emozionante che ho avuto modo di vivere nelle montagne liguri nell’estate del 2021. In quelle montagne vive un uomo che durante la mia permanenza sono riuscitə a farmi amico. Un giorno passeggiavamo nel bosco in cerca di una sorgente d’acqua, ma ad un tratto ecco che sentiamo decine e decine di zoccoli battere sul terreno, proprio sopra la nostra testa. Il mio amico mi ha poi spiegato che si trattava di un gruppo di circa 12 capre che negli anni precedenti vivevano con lui, e che avevano sempre vissuto addomesticate dall’umano. Di fatti quest’uomo sfruttava i loro corpi per ottenere latte e produrre formaggi. Un giorno – circa 7 anni fa – decidono che non vogliono più essere usate, gli resistono, gli impediscono di farsi toccare, e dopo poco se ne vanno. Lui non ha mai provato a (ri)dominarle, e ha riconosciuto il loro agire. Da quel momento le capre vivono libere nel bosco; hanno acquisito la loro indipendenza, la gestione del loro branco, e ogni tanto tornano dal mio amico, mangiano un po’ di fieno, prendono un po’ di sole, e poi vanno via. [8]

È fondamentale conoscere questi animali, vedere coi propri occhi le azioni sovversive dellз protagonistз della propria lotta e raccontarle ad altrз.

Dovremmo parlare di più delle loro storie, dei loro background, [9] dare loro più spazio, osservarli per capire cosa vogliono comunicare, sviluppare una cultura del consenso più forte e non dimenticarci che la resistenza prende diverse forme, e alcune potrebbero essere a noi incomprensibili; va tuttavia ricordato che bisogna imparare ad ascoltare l’altrə, e il fatto che questə non parla la nostra lingua non può essere una scusante. Per chi gode di privilegi, l’autodeterminazione e la libertà di movimento sono scontate, ma per moltз altrз no; per costruire reti solidali è dunque fondamentale esercitare questa solidarietà nei confronti di coloro che vengono segregatз ed uccisз dal sistema capitalistico-industriale, violenza che viene perpetuata in allevamenti, zoo, acquari, circhi, campi profughi, prigioni e in ogni altro luogo in cui qualcunə viene privatə di libertà e autonomia; e, dove possibile, agire.

Taro Colocasia

email: taro@anche.no

 

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Note

[1] Qui la notizia https://resistenzanimale.noblogs.org/files/2013/12/La-bella-storia-della-mucca-Teresa-che-si-tuffa-in-mare-e-della-ragazza-che-diventa-vegetariana.pdf.

[2] Ci sarebbe molto altro da dire riguardo a Spirit che, come altri cartoni animati – ad esempio Tarzan –, è ambientato in un contesto di violenza da parte di colonizzatori europei. Consiglio la lettura di questo breve articolo: https://www.ilsuperuovo.it/spirit-cavallo-selvaggio-puo-collegarsi-con-il-colonialismo-vediamo-la-diffusione-del-cavallo-nelle-americhe/.

[3] San, la principessa Mononoke, pur sembrando un umano, mostra una chiara seccatura nel sentirsi identificare come tale dagli altri umani o dallз abitanti della foresta. Cresciuta con i lupi, non ha mai avuto un idottrinamento all’identità o alla cultura umana. Lei non è un essere umano, è un lupo, e come tale si identifica. Qui sarebbe interessante notare ciò che la accomuna ad altri personaggi di film d’animazione come Mowgli o Tarzan. Sono tutti personaggi che non performano l’umanità, perché sempre cresciuti con animali non umani e portatori di un certo astio nei confronti dell’umano distruttore e colonizzatore. L’argomento della performatività umana viene affrontato anche in Cospirazione Animale, l’ultimo libro – almeno nel momento in cui scrivo – pubblicato da Marco Reggio.

[4] Mykola Kostomarov. La rivolte degli animali. Lettera di un proprietario terriero piccolorusso al suo amico di Pietroburgo. Lettera pubblicata dalla rivista Liberazioni.

[5] Nonostante ciò mi vengono in mente diverse personalità che hanno contribuito a questo pensiero. Si potrebbero menzionare due anarchichз francesi di quel periodo, Louis Michel ed Élisée Reclus, che parteciparono alla Comune di Parigi del 1871. Louis Michel è ricordata per essersi allontanata da delle barricate durante un combattimento per soccorrere un gatto chiuso in un angolo, venendo criticata aspramente da chi stava combattendo con lei. Suggerisco di approfondire maggiormente questo personaggio, che dedicò molte attenzioni agli animali non umani e alla loro condizione (https://www.veganzetta.org/louise-michel-rivoluzionaria-e-animalista/); Élisée Reclus, vegetariano, pubblicò il saggio Sul vegetarismo nel 1901 (https://www.anarcopedia.org/index.php?title=Sul_vegetarismo_(di_%C3%89lis%C3%A9e_Reclus)&mobileaction=toggle_view_mobile), testo che venne poi integrato nel saggio The meat fetish, pubblicato nel 1904 da Ernest Crosby. Ci sarebbero altri riferimenti riguardo a quel periodo, dato che la seconda metà del 19° secolo è probabilmente quella che segna l’inizio dell’animalismo moderno, sviluppatosi principalmente in Inghilterra; possiamo ad esempio menzionare le influenze di Jeremy Bentham, della Bands of Mercy e della Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals (RSPCA). Questi primi movimento aiuteranno a mettere le basi per dare vita al veganismo nel 1944 con la fondazione della Vegan Society e alla teoria antispecista negli anni ‘70.

[6] L’esempio migliore è l’azienda tedesca RWE (posseduta dallo Stato tedesco per circa il 23%. Link qui https://www.rwe.com/en/investor-relations/rwe-share/share-at-a-glance/shareholder-structure/) che ha distrutto quasi totalmente la foresta millenaria di Hambach, disboscando più del 90% della foresta dal 1978, anno in cui la RWE ha iniziato a possedere la zona. Per decenni, la multinazionale ha portato avanti una campagna di espropriazione con modalità coercitive ai danni delle persone che abitavano adiacenti, affermando che l’estrazione di legnite fosse un bene comune di estrema importanza per lo Stato tedesco e la sua economia. Centinaia di famiglie si sono ritrovate a prendere una scelta: iniziare un processo penale contro la multinazionale e perdere, o andarsene. Lo stesso è accaduto a Lützerath, dove l’estrazione è stata successivamente incentivata dalla strumentalizzazione della crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina.

[7] Frederick Douglass. Memorie di uno schiavo fuggiasco, p. 107.

[8] Una storia simile, anche questa ambientata nelle montagne liguri, è quella delle Vacche Ribelli; un gruppo di circa 10-15 vacche che da anni vivono libere ed autonome. Qualche anno fa alcuni squadroni di caccia organizzarono spedizioni con l’obiettivo di catturarle ed ucciderle (venivano considerate “pericolose” ed “infestanti” perché distruggevano gli orti di alcunз cittadinз), ma le Vacche sono sempre riuscite a fuggire e a trovare riparo.

[9] Per sapere di più e rimanere aggiornatз sulle ribellioni da parte dei non umani: https://resistenzanimale.noblogs.org/.

Letture consigliate

– Colling S., Animai in rivolta. Confini, resistenza e solidarietà umana (Mimesis, 2017);

– Hribal J., Paura del pianeta animale. La storia nascosta della resistenza animale (Ortica, 2021);

– Fragano A., Manifesto Antispecista. Teoria, strategia, etica e utopia per una nuova società libera (Edizioni Veganzetta, 2022);

– Best S., Liberazione totale. La rivoluzione del 21° secolo (Ortica, 2017).